LA VERA STORIA DELLO STUDIO POP PEONIA, DALLA COLLEZIONE DI ANNA PIAGGI AL PENSIERO MAGICO

Primo indizio. Il sogno.

Sogno un magazzino vuoto. Muri grigi, pavimento grigio. Dalle grandi finestre entra quella particolare luce lattiginosa che si vede solo a Milano, d’inverno. In fondo al magazzino, accostato a una parete, c’è uno stender con appesi alcuni vestiti di scena della Picciola, la compagnia teatrale che ha visto alcune mie scorribande sul palco.

Il mattino dopo, appena sveglia, vado a prendere il caffè al bar. Siamo a gennaio del 2006: in quei giorni stavo cercando un ufficio che potesse ospitare la mia attività (anche se non avevo ancora bene focalizzato cosa volevo fare).

Mentre bevo la mia tazzulella, ripenso agli orribili appartamenti che mi sono stati proposti da altrettanto terrificanti agenti immobiliari: “D’altra parte, signora, con il suo budget cosa vuole pretendere?”. Uscendo dal bar, prendo su uno dei volantini che, all’epoca, venivano riposti in una sorta di carrellino verde vicino alla cassa.
Leggo un annuncio: “Vendesi laboratorio con montacarichi”. Va bene, proviamo anche questo.

Chiamo e fisso l’appuntamento. Poi il pentimento, immediato: cosa nasconde la parola “laboratorio”? Cosa me ne faccio di un montacarichi? Richiamo e dico che voglio disdire perché ho un altro impegno. Ma l’agente insiste, mi sposta l’orario della visita e fa leva, senza saperlo, sulla mia buona educazione: non si può dire di no, se prima si è detto di sì.

Secondo indizio. I vestiti.

Il giorno stabilito si presenta il classico spilungone con completo grigio e scarpe a punta, avvolto in una nuvola di dopobarba scadente. Il palazzo è color vellutata di piselli. Iniziamo bene.
L’agente mi conduce davanti a una porticina vicino al cortile e mi dice: “Non si spaventi, non andiamo in cantina”. Già mi sento affaticata, vorrei lasciarlo lì su due piedi.
Effettivamente l’impressione di cantina c’è, soprattutto a giudicare dagli scalini grigio ardesia che introducono al “laboratorio”. Gli stessi gradini che ci sono in tutte le cantine di Milano pre guerra. Gli stessi gradini che portavano alla cantina dell’appartamento dei miei, che però era in centro (qui invece siamo ai confini dell’hinterland). Animo, ancora un quarto d’ora e tutto questo sarà finito.

Scendiamo le scale ed entriamo in un seminterrato inaspettatamente luminoso, con grandi finestre. Il pavimento è di cemento grigio, come nel sogno, o come nella cantina dell’appartamento dei miei, quello in centro (mentre ora siamo quasi al capolinea del 3).

L’uomo, indicando il soffitto, mi rassicura che verrà sgombrato tutto il contenuto del ‘laboratorio’. Alzo gli occhi: decine e decine di vestiti, forse centinaia, appesi su lunghi pali di metallo. L’agente parla parla parla. Io guardo in su: Chanel (ne sono quasi certa); Dior (sicuro!); Capucci (sbaglio?); altri non saprei ma sono belli, colorati, divertenti, tantissimi. Svuotano tutto? Peccato.
Noto il gigantesco montacarichi e una ancora più imponente cassaforte (è vera, ha pure la combinazione). Anche questi vanno via? No, montacarichi e cassaforte rimangono.
Chiedo di vedere il bagno; c’è anche un angolo cottura. È lui, ho il mio studio. Oppure devo dire laboratorio? Magazzino?

Terzo indizio. Anna Piaggi.

Seguono, nelle settimane successive, le noiose pratiche burocratiche e i tradizionali brividi, in attesa dell’approvazione del mutuo da parte della banca. Poi il compromesso in presenza di Anna Piaggi, la proprietaria.
“La signora Piaggi è una giornalista, dicono famosa. È strana”, mi avverte l’agente.
Sedute in un triste ufficetto, Anna Piaggi ed io ci guardiamo negli occhi. Lei è vestita e truccata di azzurro acceso, in tinta con il lungo ciuffo di capelli che le scende sulla fronte; le gote colorate con due cerchi di fard rosa; le labbra segnate a cuore dal rossetto. Sembra una bambola. Le dico che il suo seminterrato è bellissimo, pieno di personalità. Anna mi sorride. Io le sorrido. Scrutiamo entrambe sprezzanti l’agente, che non sa parlare in italiano, che indossa un gessato triste, che ha ai piedi i mocassini a punta.
“Quel posto mi è molto caro, ci ha vissuto Vernon Lambert, un vero artista.”
“Le prometto che avrò cura del suo laboratorio”.
“Ne sono certa”.

Quarto indizio. Outfit vintage.

Due mesi dopo ci rivediamo dal notaio per il rogito.
Siamo a Montepulciano, dove vive una parte della mia famiglia. Il notaio lo potevo scegliere io, in quanto acquirente, e i professionisti di provincia sono più economici, si sa.
Quella mattina chiedo a mia mamma Cristina di prestarmi il suo tailleur grigio di Basile anni ’80, aggancio al collo un filo di perle di mia nonna e mi spruzzo un po’ di Creed, che ho acquistato il giorno prima (con una soddisfazione che solo gli amanti del profumo possono capire). Metto in moto il Fiorino Fiat scassato di mio padre, pieno di terra, concime e cianfrusaglie da campagna, e via, verso lo shopping più costoso della mia vita. Anna Piaggi arriva con il fratello, su una Punto blu.

Quando il notaio da strapaese ci vede arrivare, strabuzza gli occhi: io vestita da signorina bene, haute couture vintage, e impolverata dal Fiorino; Anna Piaggi in leopardato verde acqua, con ciuffo di capelli rigorosamente in tinta, cappellino e veletta.
“Scusate” – ci apostrofa il notaio – “sto aspettando due signore per un rogito”.
“Siamo noi”, diciamo all’unisono.
Segue il rogito. Il notaio sciorina il contratto a una velocità tale che è impossibile stargli dietro.
Alla fine della litania, chiede: “Tutto chiaro?”.
E Anna Piaggi: “Non ho capito nulla”.
Grande trambusto.
Il notaio si rivolge al fratello di Anna: “La signora è in grado di intendere e di volere?”.
“Ma certo. Hai inteso tutto, vero Anna?”, le domanda il fratello, con un misto di dolcezza e fastidio.
“Sì, dalla prima all’ultima parola. Non rilegga, per carità”, dice Anna sorridendo sorniona dietro la veletta.

Sul piazzale di ghiaia, davanti allo studio notarile, ci salutiamo. Siamo entrambe emozionate: chi, con cappello e veletta, ha appena venduto un luogo amato; chi, indossando un tailleur anni ’80, ha acquistato delle mura che ospiteranno non si sa ancora bene cosa.
“Tra qualche mese, quando lo avrò sistemato, mi farebbe piacere invitarla per un tè”.
“Volentieri, ci tengo”.

Quinto indizio. La pellicola fotografica.

Prima di consegnarmi le chiavi, mi era stato detto che “la proprietà desidera aprire la cassaforte e ritirare l’eventuale contenuto”.
Nessun problema, ovviamente. Cassaforte aperta, chiavi consegnate.
Domando curiosa: “C’era poi qualcosa di interessante nella cassaforte?”.
“Nulla, era vuota”.
Sarà… Prendo il tram 3 e mi dirigo verso il mio nuovo studio, laboratorio, magazzino…

Quando entro mi sale lo sconforto. Senza tutti quegli abiti favolosi di Anna Piaggi, lo spazio pare fatiscente. Oddio, cosa ho fatto, ho comprato una cantina! Piango sconsolata sui gradini grigio ardesia.
Mi ripiglio e faccio un giro. Ci sono vari punti da sistemare ma mi sembra di intuire nuovamente il fascino della prima visita.
Cerco i segni di Anna Piaggi. Hanno lasciato uno specchio psiche, qualche gruccia di bambù, uno scaleo alto per arrivare fino ai pali di metallo ancora attaccati al soffitto e alle pareti.
Una stanza ha delle singolari piastrelle nere pitonate.
Apro la cassaforte, che mostra un buco al posto del disco con la combinazione. C’è della pellicola fotografica, non impressionata. Lo sgabuzzino svela una seconda cassaforte, piccola, a muro. Dentro altra vecchia pellicola, sempre vergine.
Mi avvicino al montacarichi. Ha un comando con due grandi bottoni. Ne premo uno: il montacarichi si muove. Sale e scende, con fragore. Chissà a cosa serviva…

Ripenso al giorno del rogito, quando una mia parente, che faceva la giornalista negli anni ’70, di fronte alla piantina dell’immobile che sto per acquistare, mi disse che conosceva bene quello spazio: lo usava per i suoi servizi Alfa Castaldi, notissimo fotografo di moda.
Ecco perché ci sono pellicole nelle casseforti. Forse il montacarichi era usato per trasportare le attrezzature e le scenografie.

Anni dopo, Pop Peonia

Il 2020 ci regala la pandemia e, con essa, il tempo da dedicare al proprio spazio privato. Negli anni sono successe molte cose che hanno allontanano il ricordo del sogno premonitore, di Anna Piaggi e di Alfa Castaldi.
Ora la cassaforte ospita una collezione di Topolino; il montacarichi è diventato un piano di lavoro; sui pali che ospitavano i vestiti di Anna ci sono i miei abiti, quelli che ho via via accumulato e che ho usato, e prestato, per diversi spettacoli teatrali.

Decido di catalogarli. Mi aiuta la mia amica Sara. In mezzo a mise da sera di Yves Saint Laurent, cappe della Biki, spolverini di Marimekko, architettiamo insieme il progetto Pop Peonia: affittare abiti vintage, originali e ben conservati, a stylist, set cinematorgrafici e teatri.

Tra un lockdown e l’altro, Sara ed io ci ritroviamo per fare gli shooting in studio, che viene trasformato per l’occasione in un set fotografico, con tanto di manichino, luci e telo per lo sfondo.
Passiamo quindi al sito internet e al logo, per il quale pensiamo a un cappello: ci piace l’idea di utilizzare un accessorio che richiama il concetto di abito ma anche di travestimento, un accessorio futile perché ormai démodé.

Un giorno parlo a Sara, distrattamente, della storia del rogito con Anna Piaggi e del fatto che avevo scoperto le pellicole fotografiche nella cassaforte.

Un pensiero magico

Il pensiero magico appartiene all’infanzia. In estrema sintesi, il bambino ritiene che le cose e le persone possano sentire ciò che lui stesso sente, e che il suo pensiero sia in grado di modificare e condizionare gli eventi esterni.
In età adulta, questo gioco immaginativo viene sostituito da ragionamenti simbolici e più razionali ma, in parte, può permanere.
Ed ecco che, mentre racconto gli accadimenti del 2006, in un pomeriggio di gennaio del 2021, esattamente 15 anni dopo il mio incontro con Anna Piaggi, Sara ed io ci abbandoniamo al pensiero magico.

Fotogramma da "Anna Piaggi: una visionaria della moda" di Alina Marazzi, 2016

 

  • Questo spazio era un tempo il magazzino della imponente collezione di vestiti di Anna Piaggi. Oggi ospita la collezione Pop Peonia, sempre di vestiti.
  • Il nostro progetto prevede il noleggio di abiti vintage. Il concetto di vintage è stato introdotto in Italia per l’appunto da Anna Piaggi, giornalista di moda di notevole spessore.
  • Vorremmo essere pop come lo era, profondamente ed elegantemente, Anna Piaggi.
  • Vernon Lambert, un dandy australiano grande conoscitore della storia della moda, soggiornò in un certo momento qui. Anna Piaggi lo conobbe a Londra e i due spesso andavano insieme per mercatini dell’usato londinesi alla ricerca di abiti interessanti.
  • Anna Piaggi aveva una vera passione per i cappelli, tanto che Stephen Jones, modista londinese, creò per lei un cilindro intrecciato con una garza che riproduce la Union Jack. E noi abbiamo scelto proprio un cappello come simbolo del logo Pop Peonia.
  • Alfa Castaldi, fotografo di moda, nonché marito di Anna Piaggi, utilizzò questo spazio per alcuni suoi servizi. Ne è la prova un fotogramma del documentario di Alina Marazzi, Anna Piaggi: una visionaria della moda. Al minuto 48:40 c’è Castaldi con in mano una macchina fotografica e, sullo sfondo, si intravede l’ingresso dello studio Pop Peonia (quello a cui si accede dalle scale tipo cantina, per intenderci). Ci piace pensare che Alfa Castaldi abbia vegliato sui nostri shooting, con indulgenza e benevolenza.

Per concludere con il pensiero magico, l’altro giorno, nella libreria con i volumi che ho ereditato da mia madre (era suo, ricordiamoci, il tailleur di Basile anni ’80), trovo L’Italia della Moda di Silvia Giacomonifotografie di Alfa Castaldi, Mazzotta 1984.

Silvia Giacomoni era la moglie di Giorgio Bocca, entrambi cari amici di mia mamma. Sul frontespizio leggo la dedica: “A Cristina, con il duraturo affetto che sa. Silvia, maggio ’84”.
Segue la firma di Alfa.

Ad Anna Piaggi, in attesa di quel tè.